ENERGIA DEL CORPO

Sintesi ragionata del libro di Diego Fusaro: La dittatura del sapore

Il “pensiero unico politicamente corretto”, dopo aver imposto una “dittatura del sapere”, sta tentando di fare la stessa cosa in campo alimentare, imponendo una “dittatura del sapore”, attraverso la martellante proposta e la sponsorizzazione di un “piatto unico gastronomicamente corretto”, con la conseguenza di condizionare il modo di intendere, preparare e consumare i cibi, annientando il diritto alla differenza, al locale e alla qualità.

Larve, insetti, carne sintetica, farina di grilli e di mosche sono servite come leccornie e costituiscono inedite tendenze gastronomiche, che attraversano i territori della globalizzazione neoliberale, determinando una rivoluzione dei gusti e instaurando una dittatura del sapore. Ciò scardina le identità più collaudate, radicate nel modo di mangiare dei popoli. La nuova tirannia del menu gastronomicamente corretto, produce una sempre più netta asimmetria tra i primi e gli ultimi, che sempre di più soffrono di denutrizione e malnutrizione, mentre pochi si permettono raffinati piatti economicamente proibiti ai più. Tra le molteplici transizioni: ecologiche, energetiche, digitali, imposte dal tecnico capitalismo, giustificate in nome del progresso e dell'interesse collettivo, c'è anche la transizione alimentare. Si sta sempre più imponendo un modello unico anche nel modo di intendere, preparare consumare i cibi. La dittatura del sapore completa quella del sapere, annientando il diritto alla differenza e al locale. Sempre più la molteplicità storica dei gusti, radicati nella tradizione, viene sostituita dall'unicità alienata del menu globalizzato, sempre più spesso consumato in solitudine, in tempi limitati, così che il consumo dei cibi tende a perdere la sua valenza culturale e simbolica e si appiattisce su un gesto materiale. Anche la convivialità, che trasforma la necessità fisiologica quotidiana in gesto simbolico e culturale, in un momento di relazione umana e di condivisione solidale, tende a eclissarsi. L'alimentazione si destruttura e il cibo diviene mero carburante, per alimentare la macchina del corpo. (confronto con Thich Nat Han che nel suo libro: Mangiare in consapevolezza*, elogia la lentezza, la consapevolezza e l’importanza della masticazione).

Progressivamente va perdendosi la dimensione culturale tradizionale dell'alimentazione, il cibo diviene sempre più parte di quella religione medico scientifica, che spinge l'uomo a focalizzarsi solo sulla salute del corpo, sganciata dallo spirito e dalla tradizione. Il cibo è una questione culturale per diverse ragioni: per quanto riguarda la produzione, in quanto l'uomo interviene attivamente, preparando e trasformando, cuocendo ed elaborando, inventando e modellando la materia del mondo circostante; per quanto riguarda il consumo, in quanto l'uomo seleziona con cura il proprio cibo, secondo canoni e criteri che variano nel tempo nello spazio e che permettono l'individuazione delle culture gastronomiche e delle differenze a tavola. Opera delle scelte precise selezionando e proibendo, scegliendo ed escludendo gli alimenti per ragioni non legate alla sfera veramente materiale, ma simbolica. Infatti utilizza criteri qualitativi ed economici, culturali e nutrizionali, dietetici ed etici, filosofici ed estetici, religiosi e salutistici e come riferimenti ha preferenze culturali e individuali gravide di significati.

Proprio perché l'alimentazione ha una valenza culturale, ciò che è commestibile e ciò che non lo è, non corrisponde alla distinzione edibile e non edibile, in quanto un elemento edibile può non essere considerato commestibile e viceversa, come per esempio il maiale per gli islamici, la mucca per gli indiani, gli insetti per gli europei. Dalla ricca combinazione tra edibile e commestibile, scaturiscono le diverse culture alimentari e la cucina come arte combinatoria. Il cibo è sempre il frutto di una rielaborazione culturale e simbolica, come lo è il corpo, anch'esso reso oggetto di elaborazione simbolica, facendolo transitare dalla natura alla cultura.

L'uomo è un animale che mangia, diversamente dagli altri animali: cucina il cibo, lo simbolizza, lo racconta, lo rende un fatto culturale, lo umanizza, pensandolo ed elaborandolo concettualmente. Mangiare e bere mantiene congiunti anima e corpo, in quanto il gesto del mangiare eccede la sfera meramente materiale, legato al bisogno di saziarsi e si fa elemento culturale legato al gusto, alle forme della convivialità e della cultura. Oltre al gusto, il mangiare coinvolge anche il senso della vista e quello dell'olfatto. La valenza estetica dell'alimentazione disgiunge il mangiare dalla logica del bisogno e da finalità utilitaristiche, per questo motivo l'uomo mangia anche senza aver fame e beve anche senza aver sete, per il desiderio di godimento del gusto. Inoltre il processo di civilizzazione permette all'uomo di apprendere la misura nel mangiare, attraverso  l'autocontrollo, la sobrietà e la compostezza, si accede a una sorta di civilizzazione dell'appetito. In quanto l'obiettivo dell'essere umano non è solo vivere, ma vivere bene, egli non si accontenta di mangiare, ma prova il più possibile a mangiare bene. Non gli basta la tavola, ma desidera la buona tavola. Dieta infatti significa innanzitutto stile di vita, in quanto nel mangiare c'è sempre una dimensione che coinvolge l'interezza del nostro essere della nostra vita. Mangiare intreccia testa e corpo, pensiero e materia, in quanto nella filosofia del mangiare, ogni mangiato è sempre anche un pensato. Ogni discorso sul cibo è contemporaneamente discorso sulla società, sul mondo, sulla vita. Il nostro linguaggio è  infatti imbevuto di metafore alimentari e culinarie, che testimoniano la valenza simbolica racchiusa nel cibo. Si può essere buoni come il pane, dolci come il miele, aspri come il limone, è possibile divorare libri, mangiare con gli occhi, assaporare emozioni, avere fame di informazioni, sete di sapere, masticare una lingua. Il nostro modo di pensare il mondo è infatti frequentemente mediato dal pensiero del cibo.

Potremmo individuare otto categorie della “ragion nutritiva”: logica del nutrirsi in vista della sopravvivenza, logica culturale e simbolica, logica del gusto, legata al piacere gastronomico, logica delle convivialità, logica visiva, legata all'allestimento e alla preparazione dei cibi, logica etica, legata al mangiare consapevolmente, rispettoso degli altri viventi e dell'ambiente, logica della salute, connessa al mangiare dietetico e funzionale, allo star bene, logica celebrativa, legata al cibo come momento rituale.

Il cucinare trasforma il prodotto di natura, in prodotto di cultura. Siamo la sola specie che produce il proprio cibo, sapori sempre nuovi, non solo per necessità, ma anche per potenziare il piacere. Oltre a essere ciò che mangiamo, mangiamo ciò che siamo e ciò che siamo dipende in modo non trascurabile dalla nostra storia e dalla nostra cultura, dal nostro ambiente e delle nostre relazioni. L'uomo mangia in coerenza col suo essere, che è determinato socialmente e storicamente.

Il bisogno materiale del mangiare per sostenersi è condiviso dall'uomo con tutti gli altri animali, mentre il gusto del mangiare lo rende simile agli dei, i quali mangiano per diletto e mai per fame. Portata simbolica, culturale e spirituale dell'alimentazione, socialmente e storicamente determinata. Siamo ciò che mangiamo, ma anche la società e la cultura che producono il cibo di cui ci nutriamo. Nel modo di mangiare e produrre il cibo, di prepararlo e di condividerlo si misura il grado di civiltà, di cultura dei popoli e degli individui. Nel cibo di cui l'uomo si nutre, ritroviamo l'identità sia a livello individuale, sia a livello sociale. Ma non siamo solo ciò che mangiamo, ma anche ciò che non mangiamo. Infatti le tradizioni e costumi si basano su prescrizioni che vietano il consumo di certi cibi. Tali divieti e prescrizioni dipendono da condizioni sociali e storiche, dall'ambiente e dal territorio. Il gusto è connesso con la tradizione, con la storia, con l'identità, a cui apparteniamo e con la società in cui viviamo. Il cibo è anche condivisione, momento importante della vita della comunità. Il cibo unisce le persone sia a tavola, sia nella sua produzione, sia nella caccia, sia nella raccolta. Il cibo è mezzo per stare insieme, in cui si uniscono l'elemento nutritivo e quello spirituale. La partecipazione alla mensa comune è segnale di appartenenza al gruppo. Anche quando mangiamo da soli, il cibo con cui ci alimentiamo rimanda all'abitudine, a scelte condivise culturalmente e socialmente. Gusti e disgusti hanno un'origine sociale, storica e religiosa. Il gusto individuale si intreccia nel gusto collettivo, determinato in senso sociale, storico e geografico. Il cibo e il modo di mangiare hanno a che fare con l’appartenenza sociale.

Visto che non tutti possono permettersi cibo di qualità in abbondanza, chi può lo ostenta con l’intento di mostrare il proprio status. La tavola nella storia occidentale rappresenta uno spazio altamente scenografico, sulla sua superficie si ostentano e si rimarcano il potere e la ricchezza, oltre che l'arte e il gusto.

Con la scusa dell’attenzione al benessere e alla salute dei cittadini (e sul concetto di salute e benessere, a cui si rimanda, ci sarebbe da discutere) talvolta si tende a trascurare le tradizioni e talvolta a demonizzare certi cibi, che hanno fatto parte della cultura enogastronomica e contemporaneamente accettare fast food, il consumo di bevande zuccherine, di vermi, larve, grilli e farina di mosca.

L'odierna società ha sostituito alla giusta misura e all'equilibrato limite l'eccesso e la trasgressione.

Nella società attuale, l'individualizzazione dell'alimentazione e la perdita di ogni valore simbolico, culturale e tradizionale, ha trasformato il cibo in semplice soddisfazione individuale di un bisogno naturale. Il cibo è diventato simbolo di sradicamento, delocalizzazione, flessibilità.

La tavola viene omologata e si risolve nella mera nutrizione nel minor tempo possibile. Le multinazionali del cibo erodono progressivamente lo spazio delle tradizioni, delle piccole produzioni locali e delle filiere corte. I popoli e gli individui vengono trasformati in consumatori di prodotti omologati e propagandati dall'industria culturale. I cibi vengono sempre più disgiunti dall'ambiente geografico di origine e dalle condizioni climatiche che gli sono proprie.

Attualmente il tempo concesso alla preparazione e consumo dei pasti è sempre più ristretto e solitario. La compressione del tempo dedicato al cibo e il ricorso ai fast-food, comporta uno sradicamento storico, tradizionale e comunitario, diventando sempre più uniforme e omologato, portando a perdersi ogni funzione del cibo che non sia quella prettamente nutritiva. Sempre più viene meno il valore simbolico, culturale e tradizionale del cibo e da momento di condivisione conviviale, esso si trasforma in semplice soddisfazione individuale di un bisogno naturale.
Spesso, nel mondo fluido e senza confini, l’alimentazione fuori pasto diviene quella più praticata. L’aperitivo, la pratica della degustazione sostituisce la cena con gli amici, momento di aggregazione e di dialogo, richiedente tempi dilatati, configurandosi come un momento di incontro veloce e superficiale, da realizzarsi in qualsiasi momento della giornata, al di fuori di ogni relazione conviviale. Sempre più spesso vengono consumati cibi rapidi, da asporto, da mangiare in ufficio, a bordo dei mezzi di trasporto e da soli; sempre più raramente si cucina e si acquistano alimenti già pronti o da scaldare, da consumare nel minor tempo possibile. Difficilmente nelle famiglie c’è un momento condiviso in cui trovarsi a tavola, per gustare il pranzo o la cena. Il pranzo tende ad essere frequentemente solitario, consumato in assenza di orari e di luoghi precisi e stabili, spesso svolgendo altre attività in contemporanea, come se costituisse un ostacolo ai ritmi lavorativi sempre più pressanti. Sempre più, in relazione allo strapotere delle multinazionali del cibo, va erodendosi lo spazio delle piccole produzioni locali e delle filiere corte.
I cibi sono sempre più disgiunti dall’ambiente geografico di origine e dalle condizioni climatiche. Nei supermercati compaiono gli stessi prodotti in tutto il mondo.
Assistiamo a una spettacolarizzazione del cibo e del gesto nel mangiare: infinite prove del cuoco, chef che diventano famosi, proliferare dei consigli dietetici, delle patologie legate ai disturbi alimentari, che hanno in comune la perdita del senso del limite. Il cibo diventa più buono da esibire, che da mangiare. Le tradizionali portate, legate al territorio e alla tradizione, vengono sostituite da nuove portate, che colpiscono l’occhio più del palato. La spettacolarizzazione del cibo indebolisce l’elemento culturale tradizionale, tanto da renderlo elemento destoricizzato, semplice merce. Contemporaneamente per le persone comuni, il cibo si appiattisce sulla valenza meramente nutritiva, mutando in commestibile tutto ciò che è semplicemente edibile a basso costo. Ma il cibo più di ogni altro elemento rappresenta un qualcosa in grado di definire e costruire l’identità, in quanto simbolico e culturale esso incarna l’identità e le tradizioni dei popoli, che si differenziano per il loro modo di mangiare e di cucinare, di produrre e selezionare il cibo. Pregnante è il caso delle comunità degli immigrati che mantengano e valorizzano le loro tradizioni a tavola. Il cibo rappresenta infatti uno dei più importanti spazi di costruzione identitario, sia a livello collettivo, sia individuale e familiare ed ha anche la funzione di contenitore di significato per la rappresentazione degli individui della comunità.
Il pluralismo poliedrico dei gusti, dei sapori e delle preparazioni, che anche a tavola evidenziava e valorizzava le differenze, tende invece a sparire, sacrificato dal mondo unificato e dalla trasformazione del cibo in merce. La globalizzazione, che spinge all’omologazione planetaria anche a tavola, finge di valorizzare il differente, mentre lo distrugge, chiede a ogni cultura di negarsi, per aprirsi multiculturalmente all’alterità, promuove il cibo delle grandi industrie multinazionali, mentre annichilisce le differenze e i prodotti tipici, spesso giustificandone l’esclusione con un discorso medico scientifico e eco ambientalista. Il mangiare uniforme, alienato si pone in linea con il trionfo del pensiero unico. Sempre più spesso assistiamo alla sostituzione di cibi, in cui si condensavano lo spirito dei popoli, con surrogati prodotti da multinazionali senza volto e senza radici, presentati dall’amministratore del consenso come ottimali per l’ambiente e per la salute, a differenza dei piatti della tradizione, presentati come nocivi. Assistiamo anche a una desovranizzazione alimentare grazie all’impiego di pesticidi, fertilizzanti sintetici, pratiche di ingegneria genetica, che contaminano geneticamente le specie naturali, privando i popoli della loro sovranità alimentare e obbligandoli alla dipendenza da multinazionali, che forniscono sementi e sostanze brevettate. La passione post-moderna per la carne sintetica è in linea con il transumanesimo della tecnica, con la sua aspirazione a trasformare tutto e tutti in oggetti di manipolazione, portando l’uomo sempre più lontano dalla natura e più vicino all’artificialità.
Inoltre, mentre il cibo si slega sempre di più dal valore d’uso, per le masse l’alimentazione decade a semplice nutrimento, cibo spazzatura, ipercalorico e di qualità scadente, facilmente accessibile per via del costo contenuto.
Il cibo è da sempre anche politico, in quanto genera relazioni e sancisce ruoli, include dimensioni che eccedono la sfera meramente nutritiva. Esso è capace di rendere visibile l’appartenenza a un gruppo, sancisce rapporti di forza, ma può anche divenire luogo di una politica di resistenza, di rivolta, nella direzione di una riappropriazione della propria soggettività sociale e individuale.
Nel mondo a forma di merce, appare netta la contrapposizione tra coloro che hanno bisogno disperato di mangiare, perché malnutriti e soggetti alla fame e quelli che hanno bisogno disperato di non mangiare, in quanto soggetti a patologie dell’obesità e dell’eccesso. Da una parte vi è l’abbondanza, che produce eccesso e spreco, talvolta addirittura la distruzione del cibo, dall’altra la penuria e la fame nelle periferie del mondo.

La magrezza diviene oggi espressione estetica di ceti benestanti che sanno e possono scegliere il cibo, mentre l’obesità è più connessa alla povertà, a coloro che faticano a non nutrirsi malamente.
Per contrastare l’omologazione, resistere alla disumanizzazione e difendere chi siamo, dobbiamo difendere anche cosa mangiamo, recuperare e valorizzare il gusto del territorio e della tradizione, dell’identità e della sovranità alimentare dei popoli delle culture.

L’emancipazione del genere umano passa anche dalla liberazione della tavola.

*Diego Fusaro, La dittatura del sapore, ed Rizzoli, Milano, 2024

*Thich Nhat Hanh, Mangiare in consapevolezza, ed Terra Nuova, Città di Casteòòo (Pg), 2021

Aggiungi commento

Invia
Image